Brani scelti dalla "Monografia sull'Alta Val Torre" di Ferrari Alessandra.
ABITAZIONI
Le prime abitazioni vennero costruite con tronchi d'albero e solo più tardi con pietre da calce o granito, di cui è ricca la zona, ma con muri innalzati in modo rudimentale, a secco, e senza fondamenta. Solitamente, erano ad un solo piano ed erano prive di finestre o quasi, ed avevano solo piccoli fori fatti per lo più nel muro in coincidenza con delle pareti divisorie (che erano fatte con stuoie di bastoni di salici e di nocciolo intrecciati a mo' di tessitura ed imbrattati d'argilla), perché potessero illuminare contemporaneamente due vani. Non esistevano camini né focolai. Si faceva il fuoco in terra ed il fumo usciva dalla porta. Le abitazioni erano, quasi sempre, buie e affumicate, e sembravano veri antri fuligginosi. Al posto del pavimento c'era la terra nuda.
I mobili, praticamente, non esistevano. In principio si dormiva su mucchi di foglie di faggio o di castagno e solo più tardi vennero sostituite da foglie di granoturco. Più tardi ancora le foglie di granoturco vennero racchiuse in pagliericci che venivano appoggiati su quattro tavole per terra e poi rialzati, con appositi cavalletti. Le prime tavole furono dischi di legno segati da grossi tronchi e retti da tre trampoli. In questa forma, erano fatte anche le sedie ma in misura ridotta. Fuori di casa, una tavolona o tronco spianato, posato su due pietre, serviva da panca. Scodelle, ciotole, cucchiai erano generalmente tutti in legno.
Nel 1916 a Cesariis, c'erano ancora tre case arredate così e due senza camino, senza focolare, annerite dal fumo che usciva dalla porta. Nella frazione di Pers ce n'erano parecchie di più. Solitamente mangiavano tutti nella stessa grande scodella, in cerchio, intorno alla tavola rotonda, pescando con il cucchiaio o la forchetta nel cibo ognuno al suo posto.
FUOCO
In tempi remoti il fuoco veniva acceso con l'acciarino e alcune foglie secche, a volte anche quando già esistevano i fiammiferi. Una volta acceso, non lo si lasciava più spegnere. Alla sera, quando andavano a letto, radunavano sul focolare tutte le braci e vi accomodavano nel bel mezzo un pezzo di legno duro (faggio o frassino), poi lo coprivano con altre braci e con molta cenere, in modo che la mancanza d'ossigeno potesse limitare la combustione. Il pezzo di legno ardeva molto lentamente ed al mattino, sotto la cenere, chi si alzava per primo trovava ancora la brace che veniva allargata e ricoperta da legna minuta ed il gioco era fatto.
ILLUMINAZIONE
II primo antichissimo mezzo di illuminazione delle frazioni montane fu il luč. Il luč era un bastoncino lungo circa 10-12 centimetri, ricavato dalle radici del larice essiccate e stagionate, poi ridotte in fuscelli del diametro di 4-5 millimetri. Questi fuscelli venivano infilati nel muro delle pareti (allora non si conosceva l'intonaco), fra un sasso e l'altro. Venivano poi accesi in punta con un tizzone preso dal fuoco ed ardevano come una candela. Più tardi, quando i nostri anziani avevano i mezzi per poter acquistare l'olio, il luč fu sostituito dal rudimentale "lumin" a olio, che durò fino all'avvento di lumini a olio un po' più moderni. Poco più tardi, venne utilizzata la classica lampada a petrolio, che venne utilizzata fino all'avvento dell'energia elettrica.
Un fatto di cronaca nera: Come morire per una bicicletta.
Per un lungo periodo, prima della fine degli anni '40, Maria Durlicco (Mauričjesa), che si sposò a Zomeais di Tarcento con un fornaio, era solita portare il pane con la gerla, da Tarcento, una o due volte alla settimana per i più abbienti. Purtroppo, si trovò a dover assistere al furto di una bicicletta, sempre nel tarcentino. Il ladro fu denunciato e questa signora venne chiamata a testimoniare al processo. Venne riconosciuto colpevole, e per lui si aprirono le porte del carcere. Scontata la breve pena, poiché il ladro era un poco di buono e senza molti scrupoli, appena uscito dal carcere, pensò ad un regolamento di conti con la sua accusatrice e decise di vendicarsi. Sapendo che Maria regolarmente faceva la spola tra Pers e Tarcento, un giorno l'attese nei pressi del "ponte romano", sulla mulattiera che scende da Flaipano, e mise in atto l'aggressione programmata.
La colluttazione fu molto violenta, tanto che i parapetti laterali sul ponte vennero parzialmente danneggiati. La malcapitata precipitò nel greto sottostante (non si sa se spinta o semplicemente scivolata) e rimase tramortita, cadendo sulle pietre. Forse per lo spavento o per evitare di essere eventualmente riconosciuto dalla vittima, l'omicida decise di darle il colpo di grazia, uccidendola. Per la cronaca il corpo di Maria venne sepolto a Flaiano, poiché l'omicidio avvenne sulla sponda destra del Torrente Vedronza e quindi nel territorio di Flaipano. In quei tempi, non si effettuava il trasporto delle salme, nemmeno da una frazione all'altra di uno stesso Comune ma venivano sepolte nel cimitero dove avveniva la morte
In un primo tempo, venne sospettata dell'omicidio la signora Regina Cragnolini (Sulinka) che, in seguito al matrimonio, si trasferì a Flaipano, in quanto anch'essa saltuariamente portava il pane e la posta a Pers. Si pensò ad un possibile regolamento di conti per invidia o quant'altro. Ma Regina fu fortunatamente scagionata dalla testimonianza resa da Agostino Battoia che il giorno dell'omicidio stava rientrando a Pers da Flaipano. Egli confermò, infatti, di aver visto Regina a Flaipano, davanti a casa sua, al momento della sua partenza e di aver invece incontrato l'uomo che stava fuggendo di corsa lungo la mulattiera. Anche Alida Durlicco, che era con la mamma presso la casera nel Las, ricorda di aver notato l'uomo che scappava correndo, lungo la mulattiera, ma non venne chiamata a testimoniare, a causa della sua giovanissima età.
Gli informatori non sono in grado di confermare se l'omicida fosse stato, poi, condannato o se fosse riuscito a rimanere in libertà. Certamente è una storia d'altri tempi, ma purtroppo realmente accaduta.
UN ANTIFASCISTA CONVINTO
Eravamo negli ultimi mesi del 1928 quando, durante una normale discussione in un'osteria di Montenars, Pietro Sabotig si permise di offendere "il duce" con parole un po' pesanti, probabilmente in presenza di qualche militante fascista. Scattò subito una denuncia. Così, dopo qualche giorno, mentre Pietro si stava avvicinando alla sua casa con un fascio di fieno sul capo, s'imbatte in due carabinieri che gli chiesero: "Sa indicarci dove abita Pietro Sabotig?". Egli rispose, tranquillamente, "Pietro Sabotig sono io!!" I carabinieri gli fecero sapere che erano venuti per arrestarlo, ma, nonostante ciò, Pietro non si scompose e cercò soltanto di giustificare che quanto aveva detto era semplicemente il frutto di qualche bicchiere di vino di troppo. Quando si rese conto che i carabinieri non accettavano le sue scuse, chiese loro, almeno, il permesso di portare il fascio di fieno nel suo fienile e di potersi cambiare gli abiti sporchi e trasandati che aveva addosso. Visto che l'uomo non destava alcun sospetto particolare, ma appariva calmo e risoluto, i due carabinieri accolsero volentieri la sua richiesta.
Pietro, che era molto furbo, appena entrato nel fienile ribaltò il fascio di fieno all'indietro, così da bloccare l'ingresso e coprire parzialmente la visuale ai carabinieri. Poiché conosceva molto bene il fabbricato, senza esitare, in un attimo saltò da un'altra finestra dandosela a gambe levate e si rifugiò al sicuro in mezzo al bosco. I due carabinieri attesero, invano, che l'uomo uscisse dal fienile per poterlo arrestare e condurre in carcere e, quando iniziarono ad avere qualche sospetto sul prolungato ritardo, cercarono di entrare nel fienile. Era troppo tardi poiché dalla finestra aperta Pietro se n'era andato da un bel pezzo. Altre volte ritornarono a cercarlo a casa, ma senza alcun esito in quanto Pietro rimase all'addiaccio per parecchio tempo nei boschi che ben conosceva. I parenti, in particolare il cognato Francesco Cragnolini, che conoscevano il suo rifugio, appena possibile lo rifornivano di viveri e vestiario.
Dopo qualche tempo, Pietro, nel timore di fare una brutta fine, decise di fuggire dall'Italia e, a piedi, raggiunse l'Austria, lasciando una figlia di soli 3 anni e la moglie Maria Cragnolini incinta. I due si erano sposati soltanto in chiesa ma regolarizzarono civilmente, la loro posizione, nel 1948 al suo rientro dall'Austria. Qualche anno più tardi fu raggiunto anche dal fratello Luigi che visse con lui per quasi vent'anni. Con i risparmi i due fratelli riuscirono anche ad acquistare una casetta ed un bel appezzamento di terreno. Soltanto al termine della guerra, dopo la caduta di Mussolini, decisero di rientrare a Pers e Pietro riuscì a vedere per la prima volta l'omonimo figlio Pietro che oramai aveva quasi vent'anni. Dopo il matrimonio, però, Pietro Senior se ne ritornò in Austria e, ogni tanto, ritornava a trovare la famiglia. Morì in Austria nel 1957. Per ironia della sorte, Pietro Junior rimase ferito al ginocchio nel conflitto tra partigiani e tedeschi del 13 gennaio 1945, in cui venne ucciso Mario Durlicco. Fortunatamente rimase ferito in maniera abbastanza lieve e riuscì a guarire in poco tempo.
Qualche anno più tardi il figlio emigrò in Francia ma spesso rientrava a Pers dove abitavano ancora la madre e la sorella. Dopo la morte dei familiari, raggiunta la pensione, soggiornò per qualche tempo presso la cugina Rina Cragnolini, a Segnacco, per poi trasferirsi in un prefabbricato a Magnano in Riviera, prima di ricostruire l'abitazione a Billerio.
PIRINCHIA
Rina Sabotig, fino all'età di 15-16 anni, viveva, nell'abitazione sita in località "Scudenza" assieme alla madre Maria Cragnolini. Dopo qualche anno il padre Pietro e lo zio Luigi la portarono in Austria, dove il padre aveva trovato rifugio. Probabilmente, il fatto di dover vivere senza la madre in un paese dove non comprendeva la lingua e aveva pertanto pochissimi contatti con il mondo esterno, incise negativamente sul suo carattere. Quando rientrò nuovamente in Italia, ebbe parecchi problemi di salute, culminati con un foltissimo esaurimento nervoso.
Non fu seguita molto dalla madre ed aveva anche difficoltà a relazionarsi con il fratello che quando rientrava dalla Francia spesso la picchiava. Questa situazione pregiudicò ancora di più la sua fragile salute al punto che decise di abbandonare la famiglia e continuò a vivere da sola nei boschi del "Narmost", sotto Flaipano, alloggiando sotto qualche anfratto in rifugi di fortuna, coperta soltanto con qualche nailon o qualche misera coperta. Si nutriva principalmente con i prodotti che riusciva a recuperare nei boschi.
Molto spesso, di notte, gli abitanti di Pers potevano notare il fuoco con il quale Rina cercava di riscaldarsi. Dopo qualche tempo si trasferì nei boschi sopra Montenars, rimanendo comunque isolata dal resto del mondo. Molte persone che conoscevano i suoi problemi le facevano pervenire degli aiuti, sia in viveri che in vestiario, ma lei era sempre molto diffidente nell'accettare i viveri per paura di poter essere avvelenata. Lo zio rientrato a Montenars dopo la morte del fratello, si prese cura di lei, ma nemmeno lui riuscì a convincerla a ritornare ad abitare in paese.
Sull'atteggiamento dello zio verso la nipote fiorirono anche parecchie dicerie più o meno vere che non è senz'altro il caso di riportare. Dopo parecchio tempo, quando le sue condizioni fisiche peggiorarono, venne convinta ad andare all'ospedale per essere curata. Uscita dall'ospedale, visse per qualche mese in un prefabbricato a Montenars ma morì poco tempo dopo in seguito ad una banale infezione.
LEGGENDA O VERITÀ'
Giovanni Antonio Sgarban (1857 - Zuppin), nonno di Maria Sgarban, raccontò che suo nonno Giovanni Sgarban, nato nel 1779, agli inizi del 1800, quando non era ancora in vigore il famoso "catasto di Napoleone", era presente alla disputa per la Sella Foredor fra gli abitanti di Pers, che volevano costruire alcune malghe per l'alpeggio, e quelli di Gemona. Dopo anni di lotte, si decise di scegliere una specie di "giudice super partes" che convocò tutti i contendenti sulla sella. Ognuno cercava di portare le proprie ragioni per diventare unico proprietario della zona contesa.
La disputa fu particolarmente accesa poiché nessuno voleva assolutamente cedere: sia gli abitanti di Pers che quelli di Gemona sostenevano di poggiare i piedi sulla propria terra. Stranamente, quelli di Gemona si erano tutti presentati con gli stivali particolarmente pesanti. Dopo una lunghissima discussione, un gemonese fece una semplice proposta agli avversari dicendo. "Scommettiamo che noi camminiamo sulla nostra terra?". Naturalmente i rappresentanti di Pers, convinti delle proprie ragioni, accettarono senza problemi.
A quel punto, però, la sorpresa: i gemonesi tolsero i capienti stivali facendo uscire della terra che prima di partire avevano provveduto ad inserire. Quella senza ombra di dubbio era "terra di Gemona".
Fu così che Pers perse la scommessa e dovette lasciare i terreni contesi a Gemona che da quel giorno, divenne proprietaria di quelle terre poi diventate zona di pascolo!!!
UN PO' DI SPORT
Palese Marino, nato a Cavazzo Carnico il 3 marzo 1958, giocò nel ruolo di centrocampista con una discreta carriera. Dopo i primi calci al pallone in quel di Gemona proseguì la sua carriera nelle squadre giovanili dell'Udinese. Giocò in Serie A con Lecce (1984-1986, 48 gare e due gol), Cesena (1976-1977), Como (1982-84, 69 gare e 3 gol) e Catanzaro (1982/1982, 22 gare) riuscendo a totalizzare però soltanto 46 presenze e 3 reti. Maturò una maggior militanza nella serie cadetta con un totale di 110 presenze e 6 reti. Qui si rese protagonista in 2 annate consecutive della promozione dalla Serie B alla Serie A. La prima fu con il Como nel 1983/84, con il quale disputò 69 gare con 3 gol e la seconda con il Lecce nel 1984/85, con il quale disputò 48 incontri con 2 gol. Militò inoltre con Atalanta (1975-76), Mantova (1979-81), Rende, Udinese (1977-78), Biellese (1978-79), Virescit Boccalone (1986-89, 57 incontro e 7 gol) e Sassari Torres (1989-90, 20 incontri e 1 gol).